Slawka è una nostra volontaria e un suo bellissimo racconto sull’esperienza avuta con Binario 15 è stato pubblicato su un e-book dal titolo “L’Italia migliora. Le storie per il cambiamento”, edito dal Centro nazionale per il volontariato. 

Riportiamo di seguito il suo racconto

LABKHANDE  di Slawka G. Scarso 

memoryC’è una sala, al primo piano di una palazzina romana nota come la Villetta. Una sala ampia e sgombra: c’è giusto un grande tavolo di legno lucido, e tante sedie attorno, e un paio di tavoli di riserva, di quelli di plastica, da giardino. Il sabato pomeriggio, su una parete, viene appesa una piccola lavagna bianca: basta questo tocco di magia per trasformare questa stanza in un’aula. E anche se le finestre danno sul giardino circostante, sulle case della Garbatella e magari c’è pure il sole, per qualche ora tutto il mondo che conta è qui dentro, tra queste quattro mura: seduti attorno al tavolo ci sono una quindicina di ragazzi – ma il numero ogni settimana varia. Quando arrivo ci salutiamo dicendo «Salam», e se sono un poco in ritardo loro sono già lì pronti, coi fogli di carta e una penna con cui prendere appunti, gli occhi attenti, gli sguardi svegli anche quando sono stanchi,  mentre Dawood, l’altro volontario che collabora come mediatore culturale, dà loro informazioni pratiche, o li informa sui loro diritti. Già, perché questi sono i ragazzi afghani che ogni settimana arrivano da soli a Roma. Hanno tra i 15 e i 17 anni, ma a volte anche molto meno – il più giovane che mi sia capitato di conoscere finora aveva otto anni. A Roma sono solo di passaggio: non vogliono restare in Italia ma proseguire il viaggio verso nord, verso la Scandinavia, la Germania, il Regno Unito. Per raggiungere, magari, un fratello, un cugino. E fintanto che sono in Italia preferiscono rimanere irregolari, invisibili alla polizia e alle autorità – per paura di essere costretti a rimanere qui o di ritrovarsi imbrigliati per mesi nelle maglie delle lunghe procedure di ricongiungimento familiare imposte dal Regolamento Dublino. Viaggiano da soli, un viaggio che li porta lontano dalle loro famiglie in Afghanistan, attraverso l’Iran, e poi ancora la Turchia, la Grecia, fino in Italia. Spesso viaggiano sotto i camion. Una volta, durante il laboratorio d’inglese con i ragazzi del gruppo avanzato, quelli insomma che sono già in grado di presentarsi, ho tirato fuori una scheda con i mezzi di trasporto. C’era da associare il nome in inglese al disegno. Finito l’esercizio ho chiesto loro su quale di questi avessero viaggiato. Poi: «Non c’è il camion», mi ha fatto notare uno di loro, in inglese. E gli altri gli hanno dato subito ragione. Allora mi hanno spiegato come sono arrivati a Roma tanti di loro: «Ci attacchiamo sotto ai camion: se ti infili sotto c’è uno spazio dove ti puoi nascondere», mi hanno spiegato un po’ in inglese, un po’ mimando lo stare aggrappati.

Con gli altri volontari di Binario 15 cerchiamo di dare una mano proprio a questi piccoli viaggiatori che arrivano in Italia ormai sfiniti, fisicamente ma anche mentalmente. Binario 15 è nata a Roma ad aprile del 2011 proprio per questo scopo, grazie all’iniziativa di Lorena Di Lorenzo che già conosceva bene i problemi di questi ragazzi. Il nome prende spunto dal binario 15 della stazione Ostiense, un luogo dove per una decina d’anni, e fino all’anno passato, sorgeva una tendopoli spontanea, messa su dai tanti migranti afghani in arrivo nella capitale. Tra questi, ogni settimana, ne arrivavano e arrivano tuttora anche molti minorenni, e le attività di Binario 15 sono rivolte proprio a loro. Ogni sabato pomeriggio c’è il laboratorio d’inglese. Insegniamo frasi come «My name is Ali», oppure «I come from Afghanistan», o ancora «I am a minor». Insegniamo a fare lo spelling del loro nome, a scriverlo con le lettere occidentali. Lo facciamo con l’aiuto costante di Dawood, un ragazzo afghano di ventisei anni che invece è rimasto a Roma e che all’interno di Binario 15 svolge il ruolo indispensabile di mediatore culturale. E’ lui che aiuta i volontari “insegnanti” durante la lezione di inglese, che fa da ponte tra noi e i ragazzi, lì dove il vocabolario non riesce ad arrivare. Per i ragazzi è un po’ un fratello maggiore: riesce a guadagnarsi subito la loro stima, la loro fiducia. E poi ovviamente ci sono i gesti, la collaborazione di altri ragazzi che magari parlano già meglio l’inglese, o di quelli che stanno imparando l’italiano perché hanno deciso di restare qui. Gli adolescenti svogliati di cui parlano i media qui non ci sono: sono tutti motivati, tutti con una voglia grande di imparare.

Quattro ore fanno presto a passare, tra la lezione d’inglese, la merenda, e poi qualche gioco, prima che finisca l’incontro. E la domenica organizziamo attività creative, giochi di gruppo, a volte il cineforum. E’ un modo per dare qualche strumento utile a questi ragazzi, per farli distrarre e al tempo stesso offrire loro un posto dove possano stare al sicuro durante il fine settimana, quando gli altri centri e le associazioni che sono attive a Roma e prestano i loro servizi a questi ragazzi, sono chiuse perché fin tanto che restano irregolari, non importa se si trovano già in Europa, o se essendo minori non accompagnati non potrebbero essere espulsi dall’Italia. Non importa neppure se qui potrebbero chiedere asilo, vista la situazione da cui scappano in Afghanistan. Restano migranti irregolari, viaggiatori invisibili, non protetti dalle autorità da cui anzi si nascondono, e quindi anche potenziali vittime dei trafficanti di esseri umani. E nel passare queste ore con ragazzi che vedremo probabilmente solo una volta nella vita, si condivide un pezzetto di esistenza, a partire dalle parole. Se da un lato con gli altri volontari insegniamo un po’ di inglese, non appena glielo chiediamo, ecco che sono anche loro pronti a insegnare a noi il darì – che sarebbe la versione afghana della lingua persiana. E ogni volta che imparo un vocabolo nuovo, ecco che mi correggono con attenzione la pronuncia. Se invece dico bene una parola, o li sorprendo con un termine che ho imparato da altri ragazzi come loro, la settimana precedente, sono lì che sorridono e si complimentano.

Allora, finito il laboratorio, torno a casa con la soddisfazione di essere riuscita a insegnare un poco, sì, ma anche con la coscienza di aver imparato molto di più. E mentre ci ripenso, mi torna in mente la primissima parola che mi hanno insegnato questi ragazzi, forse la più bella che mi capiterà mai di imparare: labkhande, sorriso.